La voce più riservata della moda italiana si era raccontata un anno fa in un’intervista toccante e lucidissima: dalla guerra al successo, fino all’amore mai dimenticato.
MILANO – Giorgio Armani è morto giovedì 4 settembre 2025, nella sua casa di Milano, all’età di 91 anni. La notizia è stata confermata in una nota ufficiale dal gruppo da lui fondato: «Con infinito cordoglio il gruppo Armani annuncia la scomparsa del suo ideatore, fondatore e instancabile motore».
Proprio nel 2024, Armani aveva rilasciato una lunga intervista in cui aveva ripercorso tutta la sua vita: i traumi dell’infanzia, l’ascesa, l’amore, la solitudine e le scelte radicali che lo avevano reso un simbolo riconosciuto in tutto il mondo. Parole che oggi, alla luce della sua scomparsa, assumono il valore di un testamento intimo ed emotivo.
L’infanzia tra fascismo, guerra e il dolore per Wanda
Il primo ricordo di Giorgio Armani è legato al padre e al regime: «Mi portò con mio fratello dal federale. Lì capii che per far parte di un mondo bisognava portare una divisa». Cresciuto a Piacenza, figlio di un impiegato del fascio e di una madre direttrice di colonia, Armani visse la guerra tra le cantine e le sirene, ma anche tra giochi e segreti. Raccontò di un amore infantile per Wanda, una bambina morta sotto un camion: «Mi colpì al cervelletto, non si accorse del secondo mezzo. Un trauma che non ho mai dimenticato».
Suo fratello Sergio, bello e biondo, fu una presenza centrale nei suoi primi anni, con una rivalità tenera e mai sopita. Anche lui, come tanti bambini dell’epoca, cercava polvere da sparo tra le macerie del dopoguerra. Giorgio fu ferito da una fiammata e rischiò di perdere la vista.
Nel 1947 si trasferì a Milano, che allora appariva spaventosa e disordinata. Il lavoro, le timidezze, i primi amici: tra questi Enzo Jannacci, suo vicino di casa. Armani ammise con candore che da ragazzo non era bello: «Lo sono diventato. Da piccolo ero bruttino».

Il primo amore maschile nacque durante un riposino estivo a Misano: «Un giovane uomo, un responsabile di colonia, mi ispirò subito un sentimento d’amore. Non capivo cosa fosse, ma volevo stargli vicino, farmi accarezzare. Era una grande emozione».
Il vero punto di svolta arrivò con Sergio Galeotti, conosciuto casualmente vicino alla Capannina in Versilia: «Mi diede fiducia, mi disse che avevo un potenziale. Fu lui a spingermi a mettermi in proprio». Quando Galeotti morì nel 1985, Armani confessò: «Morì una parte di me. Mi dissero che non ce l’avrei fatta da solo. E invece… ho retto».
Il successo mondiale e le critiche alla moda contemporanea
La consacrazione arrivò con il film “American Gigolo”. Richard Gere indossava solo Armani. Prima era stato scelto John Travolta, ma il regista Paul Schrader lo sostituì: «Non era elegante come Gere». Fu l’inizio degli anni ’80 e della rivoluzione del tailoring destrutturato.
Armani criticò spesso i colleghi: «I francesi sono un po’ arroganti. Non Chanel, che era elegante. Ma quelli di oggi…». Ammirava Saint Laurent per aver reso sexy la moda, ma fu sempre diffidente verso il mondo mondano: «Non uscivo, per non cadere in tentazione. Preferivo rimanere fedele ai miei amori».
Su Versace fu chiaro: «Vite e mondi separati. Ci si salutava da lontano». Più affettuoso il ricordo di Valentino: «Gentile, mi scrive ancora ogni anno». Tagliente su Dolce&Gabbana: «Due furbacchioni. Ma li ammiro». Di Miuccia Pradadisse: «Vive nel suo mondo». E su Alessandro Michele: «Cerca una strada sua».
Armani non ha mai venduto la sua azienda: «Chi vende non è più suo». Non ha avuto figli, ma si commuove parlando della piccola Bianca, figlia di un dipendente: «Sarei stato un ottimo padre». Oggi lascia tutto in mano a Leo Dell’Orco e Silvana Armani: «Ho costruito una struttura. Ma altri due o tre anni da responsabile me li concedo».
Il suo ultimo gesto pubblico fu durante l’incendio di Pantelleria, quando scomparve per salvare un anello con diamanteregalato da Leo: «Lo porto sempre con me». Alla domanda se fosse innamorato rispose: «No, non ho spazio. Ma ho affetto profondo per Leo».
La disciplina, la salute e il futuro sognato
Fino agli ultimi giorni ha praticato ginnastica due volte al giorno, smesso di bere vino e seguito una disciplina ferrea. «Il sacrificio è una vittoria». Anche dopo la malattia al fegato, superata – a detta sua – con la sola forza della volontà: «La testa comanda tutto».
Diceva di pregare ogni sera, anche se in modo impreciso: «Faccio quattro o cinque segni della croce, uno sarà giusto». Non credeva nell’aldilà, ma temeva una morte drammatica, che potesse turbare chi gli era vicino: «Mi fa paura il modo in cui arriva, non il fatto».
Amava Milano, ma ne criticava la decadenza etica: «Non c’è più umanità. Si ruba, si investe la gente. E le donne in mutande… non è questione di vestiti, ma di testa».
Giorgio Armani è stato più di uno stilista. È stato un architetto del gusto, un uomo d’ordine in un mondo disordinato. Non ha mai inseguito le tendenze, ma ha creato un linguaggio proprio, essenziale, coerente, senza clamore. Il suo impatto si misura non solo nei red carpet o nelle sfilate, ma nei gesti silenziosi, nella sobrietà consapevole, nella resistenza alle mode passeggere.
Negli ultimi anni, mentre il mondo della moda inseguiva TikTok e i look urlati, Armani continuava a disegnare abiti portabili, che rispettano la persona prima del personaggio. E lo ha fatto fino all’ultimo giorno, senza mai vendere, senza mai cedere.
Ha detto una volta: «Io disegno vestiti. E ho sempre mirato al cuore delle persone. Oggi vi ho aperto il mio». E forse è davvero così che andrebbe ricordato.