Una nuova ondata di studi evidenzia come il disagio mentale incida sulle scelte di vita, relazioni e maternità, sollevando domande sul prezzo invisibile dello sviluppo.
Nel cuore del mondo sviluppato, dove i redditi sono alti e i servizi abbondano, un paradosso inquietante prende forma: più ricchezza, più diritti, più opportunità, ma anche più depressione e meno figli. Una traiettoria che non può più essere ignorata.
Non è solo una questione culturale o economica: qualcosa si è incrinato nella sfera personale e psicologica delle persone, soprattutto nei Paesi ad alto reddito. E quella frattura comincia a lasciare un’impronta anche sui dati demografici.
La salute mentale come variabile demografica nascosta
Nel decennio 2009–2018, uno studio condotto in Norvegia e pubblicato sull’European Journal of Population ha cercato di misurare l’impatto diretto dei disturbi mentali sulla fertilità. I risultati non sono passati inosservati: le donne con diagnosi di depressione hanno avuto in media 1,34 figli, contro 1,60 delle loro coetanee sane. La forbice si allarga per gli uomini: 0,90 figli contro 1,41.
Il dato può sembrare marginale, ma in un Paese come la Norvegia — con un welfare generoso e strutturato — la questione assume un tono quasi simbolico. Se anche in un contesto così favorevole la salute mentale riesce a incidere sulle scelte familiari, allora è evidente che il legame tra benessere psichico e natalità va oltre la sfera individuale.

Non si tratta solo di volontà o desiderio: spesso il disagio mentale rende più difficile costruire una relazione stabile, affrontare una gravidanza, o perfino ipotizzare un futuro con figli. Inoltre, le terapie farmacologiche legate a depressione e ansia possono influenzare la fertilità biologica. Tuttavia, sul piano statistico generale, lo studio norvegese ha rilevato che, se nessuno avesse sofferto di disturbi mentali, il tasso di fecondità del Paese sarebbe cresciuto solo di 0,05 figli per donna.
Un miglioramento, sì, ma non tale da spiegare da solo il crollo della natalità. Il punto, dunque, non è che la depressione “causi” la denatalità, ma che entrambe sembrano scaturire da dinamiche più profonde, comuni e sistemiche.
Depressione in crescita: numeri globali e nuove frontiere del disagio
Secondo uno studio pubblicato su Social Science & Medicine, il numero delle donne in età fertile colpite da depressione è cresciuto in modo costante dal 1992 al 2021, passando da 77,6 milioni a 127 milioni. Entro il 2030, si prevede che la cifra salirà a 165 milioni.
Ma il dato che più inquieta è quello sull’incidenza della depressione nei Paesi ricchi: dai 5.675 casi per 100mila abitanti del 1992 si è passati a 6.490 nel 2021, e si stima che si arriverà a 7.847 casi ogni 100mila entro il 2030. Una crescita che non si registra nei Paesi a medio o basso sviluppo, dove i livelli sono stabili o in calo.
A soffrire di più sono giovani adulti e donne tra i 20 e i 35 anni: le stesse fasce coinvolte nei percorsi di maternità, lavoro e costruzione familiare. È qui che la pressione di dover scegliere tra carriera e famiglia diventa soffocante, soprattutto in contesti dove le aspettative sono alte, il tempo libero scarso e il supporto sociale — paradossalmente — non basta più.
Il fenomeno colpisce ormai tutte le economie sviluppate: anche in Italia, la natalità è ai minimi storici con meno di 1,2 figli per donna secondo i dati Istat del 2024, mentre cresce il numero di giovani con diagnosi di ansia, burnout o depressione.
Quando il progresso presenta il conto: il costo invisibile delle scelte moderne
L’obiettivo non è puntare il dito contro lo sviluppo economico, ma iniziare a leggere criticamente le sue conseguenze collaterali. I lavori più ambiti oggi sono spesso quelli più “esigenti”, più stressanti e meno conciliabili con una vita affettiva stabile. Le ambizioni personali e l’autorealizzazione passano anche attraverso percorsi che assorbono tempo, energie e risorse mentali.
Così, il disagio psicologico non diventa solo un effetto collaterale del benessere, ma un vero freno demografico. Non perché la depressione impedisca direttamente di avere figli, ma perché la struttura sociale che genera quel malessere ostacola anche la creazione di legami, la progettualità familiare, il desiderio di futuro condiviso.
La denatalità, quindi, non è solo un problema economico o culturale. È il sintomo di un malessere diffuso, di una società che corre, ma nella quale sempre meno persone sentono di poter “mettere radici”.
Nel 2025 il dibattito su salute mentale e natalità non è più un tabù accademico. È un campanello d’allarme concreto per tutte le democrazie avanzate. Serve un ripensamento profondo dei modelli di vita, di lavoro e di relazione. Perché se continuare a crescere significa vivere peggio, sentirsi soli, rimandare la felicità, allora forse il progresso ha sbagliato direzione.