Un gesto nato dal caso, diventato denuncia pubblica. Una pagina che sembrava innocua, rivelatasi un luogo di violenza digitale. Una donna qualunque ha smascherato un sistema di condivisione senza consenso.
Tutto è iniziato con una foto comparsa per caso sulla homepage di Facebook. Un’immagine del seno di una donna, pubblicata da un uomo con un commento volutamente ambiguo: «Che ne pensate?». A guardarla era Federica, 35 anni, toscana, di professione infermiera. La foto non era sua, ma qualcosa ha fatto scattare in lei un campanello d’allarme. «Era evidente che l’immagine fosse stata postata per provocare commenti volgari – racconta – e infatti non mancavano. Così ho deciso di capirci di più. Volevo vedere cosa succedeva davvero lì dentro».
Il gruppo “Mia moglie”: un angolo oscuro dei social italiani
Federica scopre che la pagina si chiama “Mia moglie”. Un gruppo Facebook apparentemente innocuo, accessibile senza iscrizione. Ma bastano pochi scroll per capire la verità: centinaia di foto intime di donne ritratte da mariti e compagni senza il loro consenso. Il contenuto era sempre lo stesso: immagini rubate di mogli, compagne o ex, spesso durante momenti di intimità o in pose private, accompagnate da frasi ammiccanti o esplicitamente sessuali. L’obiettivo? Farle commentare da sconosciuti. «Dentro c’erano furti di immagini, reati veri e propri, altro che goliardia – spiega –. Non ci ho pensato due volte e ho scritto subito a Facebook».

La piattaforma, però, non dà seguito alla segnalazione. E anche altre utenti che avevano denunciato la pagina ricevono la stessa risposta automatica: nessuna violazione delle linee guida. «È lì che ho capito che serviva un gesto più forte – racconta Federica –. Ho chiesto aiuto alla scrittrice Carolina Capria, che seguo su Instagram e che ha molti follower. Le ho scritto in privato, spiegando cosa avevo visto. Lei ha verificato e ha deciso di esporsi pubblicamente. Da quel momento, il caso è esploso».
Il consenso non è un dettaglio: è il centro di tutto
Federica non ha cercato visibilità. Il suo è stato un atto di coscienza civica, come tiene a precisare: «Non voglio che l’attenzione sia su di me, ma sul problema. Non mi aspettavo tutto questo clamore, ma sono felice di aver dato un contributo». È la prima volta che fa una segnalazione di questo tipo. Una decisione presa per istinto, ma che ora l’ha portata al centro di una riflessione collettiva: cosa significa davvero consenso?
La risposta, per lei, è chiara: «Se un uomo pubblica una foto privata di sua moglie su internet senza chiederle il permesso, non è un gioco innocente. È una forma di violenza digitale. E se ci sono altri uomini che ridono o commentano con leggerezza, il problema è ancora più grande. Non è moralismo. È educazione al rispetto».
Nel gruppo, ora chiuso, si vantavano pubblicamente di quello che facevano. Alcuni parlavano di “goliardia”, altri di “piacere condiviso”. Ma la realtà è che nessuna delle donne coinvolte era consapevole di essere esposta. E per Federica questo è il punto centrale: «Se non c’è consenso, c’è abuso. Punto».
Il caso ha sollevato un dibattito nazionale, costringendo anche i colossi social a una presa di posizione. Mentre la Polizia Postale riceve segnalazioni e sta valutando le denunce, sempre più donne si sono fatte avanti raccontando di essere state vittime inconsapevoli.