Genitori in ansia, figli fragili: la vera eredità emotiva della nostra generazione

Generazione Z

Giovani sempre più in crisi ma la colpa, spesso, è la nostra-ireporters.it

Franco Vallesi

25 Settembre 2025

Il 51,4% degli adolescenti italiani soffre d’ansia. Ma il problema, secondo lo psicopedagogista Stefano Rossi, nasce da noi adulti.

Nel suo nuovo libro “Genitori in ansia”, Rossi ribalta la prospettiva: non è la Generazione Z ad ammalarsi di ansia, ma sono i genitori a trasmetterla. E lo fanno ogni giorno, spesso inconsapevolmente.

La chiamano Generazione Z, ma per molti è diventata la Generazione Ansia. Secondo l’ultima indagine dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, più della metà dei ragazzi italiani – il 51,4% – sperimenta con frequenza stati d’ansia e tristezza prolungati. Ma siamo sicuri che il problema stia solo nei figli?

Stefano Rossi, psicopedagogista con oltre vent’anni di esperienza con famiglie e scuole, ha deciso di ribaltare la narrazione nel suo nuovo libro “Genitori in ansia” (Feltrinelli). Il punto centrale? «L’ansia non è solo dei figli. È dei genitori. Ed è da lì che parte tutto.»

L’ansia parte dagli adulti, non dagli smartphone

Nel libro, Rossi propone un cambio di paradigma: non sono solo i giovani a soffrire d’ansia, ma l’origine va cercata nel mondo adulto, in particolare nei genitori contemporanei. «Quelli di oggi – spiega – sono l’opposto dei genitori del passato: poche certezze e molti dubbi. Ma l’ansia non è sempre negativa: può diventare responsabilità, se trasformata in consapevolezza.»

Per Rossi, l’ansia si eredita emotivamente, più che biologicamente. «Quando ci chiediamo perché i bambini sono iperattivi, reattivi, ansiosi o disattenti, dovremmo guardarci dentro. La nostra ansia diventa la loro. Il nostro esaurimento diventa il loro. Lo stesso vale per rabbia, paura e fragilità.»

Paure trasmesse
Non solo colpa dei social ma soprattutto degli stati emotivi dei genitori-ireporters.it

Ma è tutta colpa degli adulti? No, ma la responsabilità è condivisa. Lo psicologo americano Jonathan Haidt, autore del saggio La generazione ansiosa, sostiene che la colpa vada attribuita anche all’esplosione dello smartphone. Rossi è più prudente: «C’è sicuramente una sincronicità tra l’uso eccessivo dei social e il malessere emotivo. Ma i dati di Haidt sono correlativi, non causativi. Spegnere lo smartphone non cancella l’ansia.»

La soluzione, per Rossi, non è demonizzare la tecnologia ma educare all’uso consapevole, con un accompagnamento graduale fin dall’infanzia. «Lo smartphone non va dato ai bambini, e ai preadolescenti solo dopo un percorso educativo. Non è una babysitter digitale.»

Madri in ansia, padri disorientati: il disagio parte dalla coppia

Un altro nodo centrale è l’età dei genitori. Oggi si fa un figlio sempre più tardi e, secondo Rossi, questo può incidere. «Si perde in energia fisica, ma si guadagna in maturità psicologica. Tuttavia, l’ansia genitoriale è più profonda e antica: nasce dalla paura di perdere il figlio. È un tema archetipico.»

Le manifestazioni di disagio nei figli, spiega, iniziano già da piccoli. «Se l’adolescenza esplode come un terremoto, è perché qualcosa si è già incrinato prima. Le crepe partono dall’infanzia. La radice è spesso nel modello adulto, non nel figlio.»

Rossi analizza anche la differenza tra madri e padri. «Le madri comprendono i figli “sentendoli” dall’interno. Il loro corpo ha custodito la nascita. I padri invece “pensano” i figli da fuori. Sono progettati per garantire la distanza educativa.»

Ma oggi i ruoli si sono confusi. «Troppi padri sono disorientati o “evaporati”. Le madri si trovano a sostenere anche il ruolo paterno, restando sovraccariche. Così crescono figli ancora più fragili, senza uno spazio di equilibrio tra vicinanza e autonomia.»

Secondo Rossi, la paura più grande di una madre è la morte del figlio. Anche un semplice raffreddore può scatenare un’allerta sproporzionata. Per i padri, invece, la paura simbolica è un’altra: essere esclusi. «Temono di non riconoscere più la loro compagna, assorbita nel legame madre-figlio, e sentono di non avere più spazio.»

Ne deriva un profilo paterno fragile, in crisi d’identità. «Oggi molti padri oscillano tra il “papi”, che vizia per farsi amare, e il “mammo”, che copia il ruolo materno senza incarnare la forza educativa. Il risultato è una figura maschile confusa, nella nebbia

Rossi propone un modello alternativo: quello di Noè, l’uomo giusto che costruisce un’arca per salvare la famiglia dal diluvio. «Oggi troppe madri guidano un’arca dove il primo figlio è il marito. Il padre deve tornare a essere l’arca.»

Ma il vero cuore del libro è anche un altro: il rapporto di coppia. «Se i genitori si amano, anche nelle difficoltà, trasmettono sicurezza. Non serve la perfezione, ma gesti quotidiani di cura reciproca. Il figlio cresce nell’amore che vede, non solo in quello che riceve.»

Infine, un esercizio fondamentale: ricordarsi il figlio che siamo stati. «Dentro ognuno di noi vive ancora quel bambino. Le sue ferite, le sue paure. Collegare quel passato con il presente ci rende genitori più empatici, meno reattivi e più capaci di ascolto

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