Non basta aumentare i fondi: l’Oms denuncia la crescita silenziosa delle patologie mentali e chiede interventi più strutturati e coerenti.
In Europa si spende più che altrove per la salute mentale, ma il disagio cresce. In Italia arriva un nuovo Piano d’Azione, ma basterà davvero?
C’è un dato che dovrebbe far riflettere, più di ogni altro: oltre un miliardo di persone nel mondo convive con un disturbo di salute mentale. È un numero impressionante, ma ancora troppo spesso ignorato nei tavoli decisionali e nella vita quotidiana. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) lancia un nuovo allarme: servono più risorse, più attenzione, più coraggio. Non solo economico, ma anche culturale. Perché i disturbi psichici continuano a essere mal chiamati, mal gestiti e mal distribuiti nei bilanci pubblici.
Crescono i fondi, ma cresce anche il disagio: il paradosso europeo
Nel 2024, secondo i dati dell’Oms, i governi della regione Europa hanno speso 51,76 dollari pro capite per la salute mentale, più di qualsiasi altra area del mondo. È un dato che, a prima vista, potrebbe suonare confortante. Ma basta grattare la superficie per accorgersi che le risorse economiche da sole non bastano. La diffusione dei disturbi mentali è in aumento costante, e le risorse attuali, seppur superiori rispetto al resto del pianeta, non riescono a contenere il fenomeno.
Perché? Una risposta sta nella scelta di allocazione dei fondi. L’Oms sottolinea come spesso le risorse vengano canalizzate verso aree istituzionali, dimenticando le strutture intermedie, i servizi territoriali, il lavoro delle famiglie. Ma la questione è anche semantica, quasi filosofica. Perché ancora oggi parliamo di “disagio” quando sarebbe più corretto – e onesto – parlare di malattia mentale. E questa ambiguità linguistica non è neutra: contribuisce a minimizzare, a deresponsabilizzare, a rimuovere.

Non è solo questione di fondi insufficienti. È una questione di priorità sbagliate, di modelli assistenziali ancora troppo fragili, e di una società che preferisce ignorare il problema finché non lo vive in casa propria.
In un mondo che spinge sempre più verso l’individualismo digitale e la solitudine sociale, la salute mentale non può essere un tema lasciato agli slogan delle Giornate mondiali o a qualche campagna social ben confezionata. È un problema di salute pubblica, con ricadute enormi su scuola, lavoro, welfare, giustizia e famiglie.
Italia, dopo 47 anni dalla Legge Basaglia arriva il nuovo Piano nazionale: è abbastanza?
Nel panorama europeo, l’Italia si trova in una fase di transizione delicata. A 47 anni dalla Legge Basaglia, il Ministero della Salute ha presentato nel 2025 un nuovo Piano nazionale d’azione per la salute mentale, che segna una svolta attesa da decenni: era dal 1999 che non veniva aggiornato il Piano di tutela nazionale.
Un passo importante, senza dubbio. Ma che rischia di restare un’operazione di facciata, se non verrà accompagnato da risorse adeguate e soprattutto da una gestione oculata dei fondi. Le associazioni che si occupano di tutela della salute mentale lo ripetono da anni: servono più psicologi nei consultori, nei centri di salute mentale, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Servono protocolli chiari per il supporto delle famiglie, che spesso restano le uniche a gestire i malati. E serve una presa di posizione politica netta su cosa consideriamo prioritario nel sistema sanitario.
Il problema non è solo tecnico o sanitario. È anche culturale e sociale. La scelta – spesso inconsapevole – di continuare a chiamare “disagio” ciò che è malattia non è solo un eufemismo. È una forma di negazione collettiva. È un modo per addolcire qualcosa che invece è duro, reale, impegnativo. Ma le parole contano. Perché se continuiamo a parlare di “disagio”, sarà più facile tras-curare che curare. Sarà più facile archiviare che affrontare. E sarà più difficile ottenere quel rispetto pieno, dignitoso, che ogni malato mentale – e ogni persona che gli sta accanto – merita.
Il nuovo Piano, secondo i documenti ufficiali, prevede un rafforzamento delle strutture territoriali, una collaborazione più stretta tra servizi sanitari e sociali e una maggior attenzione alla salute mentale in età evolutiva. Ma tutto questo, se non sostenuto da fondi veri e da una volontà politica costante, rischia di tradursi nell’ennesima dichiarazione d’intenti.
La salute mentale nel 2025 è, finalmente, tornata al centro del dibattito pubblico. Ma la strada è lunga. E non basta aumentare il budget: bisogna ripensare il sistema, riformularne il linguaggio, restituire umanità ai percorsi di cura, rispetto a chi soffre e responsabilità a chi decide. Perché ignorare il peso della salute mentale non è solo un errore politico: è un errore umano. E ogni giorno in cui un paziente viene dimenticato, non è lo Stato a fallire, siamo tutti noi.