L’Italia festeggia un calo storico della disoccupazione, ma sotto la superficie si nasconde un mercato del lavoro segnato da squilibri generazionali, divari di genere e retribuzioni inadeguate. I numeri dell’Istat mostrano una realtà in chiaroscuro che mette in discussione la narrativa trionfalistica.
A luglio il tasso di disoccupazione italiano è sceso al 6%, il livello più basso dal 2007, e migliore della media dell’Eurozona (6,2%). Gli occupati sono saliti a 24,2 milioni, record assoluto dal dopoguerra, e i contratti a tempo indeterminato sono aumentati. La premier Giorgia Meloni ha subito rivendicato il risultato come effetto diretto delle politiche del suo governo.
Ma l’aumento degli occupati, come sottolineano diversi analisti, non è dovuto alla creazione di nuovo lavoro, bensì all’effetto combinato di riforma delle pensioni, invecchiamento della popolazione e allungamento della vita lavorativa. Gli over 50 rappresentano quasi tutta la crescita: rispetto a un anno fa sono +408.000, mentre tra i 35-49ennisi registrano -160.000 occupati e -36.000 tra gli under 24. Anche correggendo il dato per variabili demografiche, il risultato è netto: +2,3% negli over 50, -0,7% negli under 35.
A pagare il prezzo più alto è soprattutto l’occupazione giovanile, che resta fragile, precaria e sottoqualificata. A questo si somma un dato strutturale: una persona su tre tra i 15 e i 64 anni è inattiva, ovvero non lavora e non cerca lavoro. Un segnale allarmante di scoraggiamento sociale e di disconnessione economica.
Donne penalizzate e salari bassissimi: le vere crepe del sistema
Anche il divario di genere resta preoccupante. A luglio gli uomini occupati sono aumentati di 49.000, mentre le donne sono diminuite di 37.000. Il confronto su base annua è ancora più impietoso: +198.000 tra gli uomini, appena +20.000tra le donne. Il tasso di occupazione femminile si ferma al 53,7%, contro il 71,8% maschile. E il tasso di inattività femminile è in risalita, segnale che molte donne escono dal mercato del lavoro, spesso per motivi legati alla maternità o alla mancanza di servizi.

Ma a rendere drammatico il quadro è anche la scarsa qualità dell’occupazione. Secondo l’Ocse, l’Italia ha i salari medi più bassi del G7, con circa 22.000 euro netti all’anno, contro i 31.000 della media Ocse. Il nostro è l’unico Paese del G7 in cui i salari reali sono diminuiti negli ultimi 30 anni. Oltre 6,2 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.000 euro al mese: quasi uno su quattro.
La povertà lavorativa è diventata un fenomeno strutturale. E con il costo della vita in aumento, in molte città italiane affittare un appartamento può assorbire oltre il 50% dello stipendio netto, con punte del 65% a Milano. Questo rende impossibile progettare un futuro, anche per le coppie che lavorano in due.
Lavoratori stanchi, disillusi e tassati: l’Italia del 2025 è in apnea
Il risultato? Una forza lavoro demotivata, stressata e fiscalmente oppressa. Secondo il Gallup Global Workplace Report 2025, solo un italiano su dieci si sente davvero “coinvolto” nel proprio lavoro. Siamo tra i primi cinque Paesi al mondo per stress percepito (49%) e tristezza quotidiana (21%).
A pesare, oltre a condizioni economiche difficili, c’è anche un fisco squilibrato: secondo i dati di Itinerari Previdenziali, il cosiddetto fiscal drag ha colpito duramente i lavoratori dipendenti, con un aumento del 17,8% delle imposte per gli operai e del 21,8% per gli impiegati rispetto al 2022. La classe media – quella che dichiara redditi tra 20.000 e 50.000 euro – paga il 94% dell’intero gettito Irpef.
Intanto le imprese preferiscono distribuire dividendi piuttosto che investire in innovazione o qualità del lavoro, come dimostrano i dati Consob del 2025. Il risultato è un sistema in cui chi lavora paga molto, guadagna poco e si sente poco valorizzato.
I numeri dell’Istat sono reali, ma raccontano una verità parziale. L’occupazione cresce, ma non crea benessere diffuso. Non basta avere un lavoro se questo non garantisce reddito, dignità, prospettive. Il boom degli over 50 al lavoro non è frutto di nuove opportunità, ma dell’impossibilità di andare in pensione. I giovani restano ai margini, le donnearretrano, e i salari sono fermi da trent’anni.
Oggi più che mai, il nodo non è solo creare posti di lavoro, ma creare lavoro di qualità. Che significhi qualcosa, che permetta di vivere, non solo di sopravvivere. In un’Italia dove un quarto dei lavoratori è povero e uno su tre è inattivo, la vera sfida del futuro non sarà solo far scendere la disoccupazione. Ma ridare valore al lavoro stesso.