Due casi simili di esposizione non consensuale di immagini femminili mostrano le differenze tra i meccanismi di controllo delle piattaforme social e quelli dei siti indipendenti.
Centinaia di donne fotografate, rubate, esposte, commentate da sconosciuti con frasi cariche di sessismo, morbosità, volgarità. Due vicende parallele hanno riportato al centro del dibattito la violenza digitale: da un lato, il caso del gruppo Facebook «Mia Moglie», frequentato da oltre 32 mila uomini, dove venivano caricate immagini intime o personali senza alcun consenso; dall’altro, la lunga e opaca storia del sito web «Phica.eu» (nato come Phica.net), una sorta di archivio oscuro che mescolava pornografia esplicita e volti pubblici, dalle giornaliste alle donne comuni.
Se nella sostanza si parla della stessa violazione, le modalità di gestione e risoluzione sono state profondamente diverse. Il primo è stato rimosso rapidamente da Facebook. Il secondo, invece, ha continuato a vivere indisturbato per anni, cambiando nome, dominio e aggirando ogni segnalazione. Ma cosa rende così difficile chiudere un sito web rispetto a un gruppo social? E quali reati si configurano per chi pubblica o commenta contenuti non autorizzati?
Un social sotto controllo privato contro un sito semi-anonimo: la differenza di potere e azione
Nel caso del gruppo «Mia Moglie», ci si trovava all’interno di un ambiente regolato da una piattaforma privata: Facebook. Chi si iscrive accetta termini d’uso precisi, e chi viola quelle regole può essere sanzionato o escluso. Le segnalazioni degli utenti, in questo contesto, attivano meccanismi interni di moderazione, con la possibilità per Meta di rimuovere in modo rapido gruppi e contenuti ritenuti lesivi o inappropriati.
La piattaforma ha agito su pressione pubblica e istituzionale, chiudendo il gruppo in tempi relativamente brevi. Non è servito un intervento della magistratura né un’indagine complessa: la responsabilità editoriale di ciò che avviene su Facebook è, fino a un certo punto, demandata anche a chi gestisce la piattaforma.

Tutt’altra storia per Phica.eu, un sito web autonomo, probabilmente ospitato su server esteri e protetto da anonimato e burocrazie internazionali. In questi casi, non esiste un moderatore a cui scrivere. Non c’è un pulsante “segnala” che garantisca una rimozione immediata. Per intervenire occorre seguire iter legali più complessi, a partire dalla segnalazione alle autorità del Paese dove si trova il server, per poi passare a una richiesta di deindicizzazione da parte dei motori di ricerca, processo che può richiedere settimane o mesi.
Nel frattempo, il contenuto resta online. E se il sito viene oscurato, può riapparire con un altro dominio, grazie a meccanismi come il redirect automatico: chi cerca il vecchio indirizzo viene portato al nuovo, e il ciclo continua.
Le falle legali e i reati ipotizzabili nel sistema italiano
Una delle questioni più gravi sollevate da queste vicende riguarda la difficoltà a perseguire penalmente chi pubblica o commenta contenuti non autorizzati. Nel caso di Phica.eu, nonostante l’assenza di una struttura social, si possono ipotizzare diversi reati. Il primo è la diffamazione, nel momento in cui l’immagine di una persona viene associata a commenti o contesti offensivi. Ma c’è anche la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, il cosiddetto revenge porn, anche se non sempre è applicabile in senso stretto.
I contenuti più estremi potrebbero configurare l’istigazione a delinquere, come nei casi in cui nei commenti si inneggia alla violenza sessuale o si sollecita l’invio di nuovi materiali illegali. Nei casi in cui le immagini riguardano figure pubbliche o istituzionali, si può ipotizzare anche il vilipendio di organi dello Stato.
Per rintracciare chi ha pubblicato o commentato, la chiave è l’indirizzo IP. Ogni dispositivo connesso a Internet ha un proprio codice identificativo, e con una richiesta formale — solitamente nell’ambito di un’indagine giudiziaria — è possibile risalire a chi ha effettivamente caricato quei contenuti. Tuttavia, se si utilizzano VPN o server esteri, il tracciamento diventa più difficile, anche se non impossibile.
I gestori di Phica.eu, in alcune comunicazioni pubbliche, hanno fatto riferimento al Digital Millennium Copyright Act (DMCA), una legge americana che tutela il diritto d’autore online. Questo ha consentito ad alcuni utenti di richiedere la rimozione dei propri contenuti tramite apposite procedure. Ma il DMCA non copre le violazioni della privacy o i casi di esposizione non consensuale di foto, che in Italia sono invece coperti da leggi specifiche.
In sintesi, queste due vicende rivelano una frattura profonda nella gestione della violenza online: da un lato il mondo dei social, con i suoi limiti ma anche con strumenti più agili per intervenire; dall’altro quello del web indipendente, dove il controllo è affidato alla lentezza del diritto e alla volontà di chi gestisce i server. In mezzo, sempre loro: donne reali, vittime di un’esposizione non voluta, di una violazione dell’intimità che, nel digitale, sembra non avere più confini.
La domanda che resta sospesa è quanto ancora si dovrà attendere per avere un sistema davvero efficace, capace di intervenire tempestivamente e garantire giustizia e rispetto anche nel mondo virtuale. Perché finché chi sbaglia avrà un rifugio nei buchi neri del web, le vittime continueranno a pagare il prezzo più alto.